lunedì 8 settembre 2014

BESANA MARIA (MARIET) LA MIA BISNONNA




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La bisnonna Maria Besana è una figura di rilievo nella “mitologia” dei Riva. Era soprannominata "Nona Marièt" e veniva da Bernareggio.
Mia madre ricorda che il vecchio Rolla, detto “al Pota” (di origine bergamasca?), un uomo alto che le incuteva un po’ di paura  e che era bisnonno del mio quasi coetaneo Mario Pulici, quando la incontrava da piccolina si divertiva un mondo ad apostrofarla con voce cavernosa e un po’ tremula: ”Bernarégia  végia végia” (alludendo alle origini della sua nonna Marièt). O, in alternativa ma con la stessa voce, la chiamava anche  “Paciarisotu" (alludendo ironicamente al singolare dialetto bustocco della mia nonna Virginia Bertani, sua madre).
Maria Besana nacque nel 1852 (esattamente cento anni prima di me) e morì nel 1934. Rimase orfana molto piccola, con due fratellini più piccoli ancora. I tre  vennero ospitati ed allevati da zii materni che di cognome facevano Vertemati. Probabilmente dunque la loro mamma era appunto una Vertemati ma non ne sappiamo il nome proprio. I Vertemati abitavano in una corte vicino alla vecchia scuola elementare o alla chiesa di Bernareggio.
La bisnonna Marièt era analfabeta. Non era mai andata a scuola. Accudiva i fratellini e a dieci anni andava  già  a lavorare in filanda a Germanedo (Lecco). Viaggiava su un carretto trainato da un cavallo. Partiva alle 4 di mattina del lunedì con le donne e altre bambine. Portava un fagotto contenente  pan giallo, qualche fetta di pancetta e probabilmente qualche paio di calze. Non le mutande che a quel tempo, secondo mia madre Enrica, non venivano usate, men che meno dai bambini. Dopo una settimana di lavoro la piccola Marièt tornava a casa il sabato sera.
Le bambine, in virtù delle loro piccole dita, in filanda erano addette alla ricerca del capo del filo che costituiva il bozzolo. I bozzoli venivano immersi in vasche d’acqua bollente. Occorreva infatti far morire il bruco per evitare che divenisse farfalla e bucasse il bozzolo rovinando così il filo di seta. Così queste bimbe lavoravano tutto il giorno con le mani nell'acqua bollente.
Mia madre ricorda che a S. Albino stava anche una certa "Angiulana" che era originaria di Bernareggio e parente della nonna Marièt. Secondo la nostra vicina Carmela Ratti in Rossi questa donna era la sua nonna "Angiòla" (accento sulla o chiusa). Forse fu proprio questa Angiulana a favorire l'incontro fra Marièt e il bisnonno Davide.
Marièt arrivò al matrimonio poverissima. Non ebbe neppure i soldi per portare in dote, come usava tradizionalmente, "al stè" o "baslèta", cioè lo staio di rame che veniva usato per mondare il riso.
La nonna Mariet anche se analfabeta era però molto sveglia e brava nei conti (dote assai apprezzata in negozio). Aveva anche buona memoria. Ricordava le date di nascita e di morte di tutti. Quando i figli fecero abbastanza fortuna e dovettero assolvere a vari impegni ed appuntamenti per via del negozio “da mercanti” e per vari affari immobiliari intrapresi, la nonna Marièt funzionò da agenda: " Mama regurdivas che 'l di tal devum andà in dal nudar...". (Mamma ricordateVi che il tal giorno dobbiamo andare dal notaio”). Ormai anziana e coi nipoti impegnati alle scuole superiori imparò a leggere le sillabe ma mai ad assemblarle in una parola compiuta. Così nonostante le sollecitazioni dei nipoti "ci...me...na"  non divenne mai "cinema".
La bisnonna in compenso era venerata dai figli. In particolare dal mio nonno Paulìn che peraltro lei considerava il vero capo famiglia. Anche perché il marito Davide era morto presto e il figlio maggiore Guido dai dieci/dodici anni in poi visse a Parigi prima e a Zurigo poi, rientrando in Italia solo per combattere per il suo paese nella prima guerra mondiale.
A testimonianza del forte legame tra lei  e il figlio mia madre ricorda che alle volte, al rientro di Paulìn dal lavoro, poteva accadere che la bisnonna battesse ritmicamente per terra  la punta della ciabatta o dello zoccolo. Era un segno inequivocabile di nervosismo. Allora il nonno le chiedeva cosa ci fosse e la bisnonna diceva: "La tal (nuora) la mà mancà da rispèt". Paulin allora convocava le nuore o gli altri incriminati in seduta plenaria ed annunciava platealmente: "Sia chiaro: la padruna da ca la cà chi l'è cala dona chi!" (“la padrona di questa casa è questa donna!”). La questione era chiusa all’istante senza alcun ulteriore contenzioso.
Altro analogo rito ricorrente veniva officiato allo spuntare di ogni primizia dell'orto o del frutteto. Paulin convocava i bambini e in modo chiaro e didascalico diceva: "Cala magiustra chi (questa fragola, la prima) l'è da la nona. Guai a chi la tuca!".
Un rapporto più singolare, come spiegherò dopo, legava la bisnonna al figlio Demetrio. Demetrio veniva chiamato dai nipoti Ziu Mètar. Credo ci fosse dell' ironico compiacimento nel gioco di parole, dato che il metro, inteso come robusta barra di legno di sezione rettangolare nella casa dei "mercanti" troneggiava immancabilmente sul bancone del negozio ed era lo strumento di lavoro indispensabile per misurare rapidamente gli scampoli. A volte serviva perfino per minacciare la paga ai bambini disobbedienti. Ziu Metar era stato un pò l'artefice dell'impresa commerciale dei Riva. Il primogenito Guido infatti fin da piccolissimo faceva il muratore (e solo poi divenne ristoratore e cuoco). Paulìn ne aveva seguito le orme fin dalla quarta elementare ma poi era diventato operaio capelé, di cappellificio. Demetrio, forse per conformazione fisica, forse per vocazione, aveva scelto altre vie professionali. Aveva iniziato giovanissimo ad organizzare piccole lotterie a premi nelle osterie. Poi aveva iniziato a vendere "strinc e bindèi" (stringhe efettucce), girando da ambulante con un cesto di vimini. Inutile dire che era un oculato risparmiatore ed investitore ed incarnava con la sorella Chiarina l'anima più “mercantile” dei Riva, mentre Guido e Paolo erano più idealisti.
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- foto di Riva Giuseppe con la moglie Carsani Maria

Giuseppe invece, che era più giovane, era sensibile, diremmo oggi, alle nuove tecnologie. Era un bell’uomo, sanguigno e a volte impulsivo. Per inciso fin da piccolino fu molto irrequieto tanto che una volta, pur essendo tutto fasciato a mò di mummia nel “bigulòt”, come si usava allora, riuscì a scendere dalla camera del primo piano lungo la ripida scala a pioli. Da grande amava molto fare scherzi ai bambini. Una volta, per esempio, appese all'attaccapanni lo zio Emilio, anche lui fasciato come usava ai tempi, e lo lasciò li terrorizzato per un bel pò. Esempio ben seguito da mia madre che amava lasciare il cuginetto Carluccio Guidali, di tre o quattro anni, appollaiato sulla forcella di un albero dicendogli: “Finché non smetti di piangere non ti tiro giù!”.  Lo Zio Giuseppe era appassionato soprattutto di meccanica. Aveva la moto e si occupava della manutenzione dei carri e dei calessi e in seguito delle auto e dei camion della famiglia. Per un destino beffardo morì ancora piuttosto giovane cadendo proprio nella buca del suo meccanico di fiducia a Concorezzo, mentre rimirava il motore del suo camion in riparazione. Un evento drammatico cui purtroppo dovette assistere il figlio Mario. I soccorsi furono immediati ma vani.
Tornando a Demetrio, lo “Zio Metar”  aveva sicuramente un certo genio imprenditoriale ma anche una propensione perfino eccessiva alla parsimonia. Così controllava puntualmente ogni entrata ed uscita della famiglia. Le giovani Riva che ormai andavano alle magistrali dalle Canossiane, "in centro", con la crème della borghesia monzese, erano costrette a lavare ripetutamente le calze di seta prima di metterle onde evitare che lo zio si accorgesse che erano nuove. Altrimenti sarebbero state dure reprimende per l'irresponsabile prodigalità dei parenti. 
Proprio per questa sua inclinazione al controllo (spending rewew, diremmo oggi) Mètar si era conquistato in famiglia un altro soprannome meno innocente. E l’artefice del graffiante nomignolo era stato il più insospettabile dei familiari. Proprio la sua mamma, bisnonna Marièt, lo chiamava, in sua assenza, il "pètabal" (che potremmo tradurre pudicamente come "il rompiscatole"). A volte, rivolgendosi alle nuore la bisnonna diceva: "Adess che gh'è no 'l pètabal  fèmm un bel cafè!". 
Va detto a margine che Marièt aveva comunque una certa propensione all'aforisma icastico, fantasioso ma a volte un po' greve. Un suo proverbiale motto rivolto ai nipoti era: ”Mangia l'uga (dieresi) ca ta schigasciat!”. Lasciamo la traduzione all'iniziativa del lettore.  
I figli di Davide e Marièt nacquero quasi tutti in Curt di Fopa. Solo lo zio Giuseppe nacque nello stanzone sopra il negozio nuovo dei Riva.  Oltre ai quattro maschi (nell'ordine: Guido, Paolo, Demetrio e Giuseppe) i bisnonni ebbero anche due figlie, Chiara ed Irene. Irene a soli 20 anni morì di tisi. Secondo il nonno Paolo era molto bella e dolce. Assomigliava a zia Chiarina e a questo punto direi che assomigliava anche alla sua mamma perché quando ho visto la foto della bisnonna Marièt giovane mi è parsa identica a Zia Chiarina che ho conosciuto bene da ragazzino. Irene era molto pia tanto che sembrava dovesse diventare una suora. Quando i fratelli le rivolgevano parola in modo meno che cauto lei diventava tutta rossa. Probabilmente era la penultima dei figli. Il bello è che ho (ri)scoperto la sua esistenza solo di recente (nell'ottobre 2012) grazie all'albero genelogico stilato da Simone Riva, figlio di mio cugino Giorgio. Può darsi che me ne fossi dimenticato. A mia madre Enrica è sembrato strano di non avermene mai parlato anche se probabilmente una morte così prematura è evento che tutti in qualche modo cercano di rimuovere. Allora ho chiesto se nonno Paulin avesse avuto altri fratelli. Enrica mi ha risposto che nonno diceva di non ricordare ma che probabilmente erano morti due o tre fratellini, “ma molto piccoli”.













































VERTEMATI MAURO ERA UN CUGINO DELLA NONNA MARIET
Francesco Besana, cugino della nonna Marièt














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