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Il nonno Paulin, come suo padre Davide, era magro e non molto alto. Aveva gli occhi azzurri e i capelli castano chiari, un pò ondulati, Aveva anche qualche pelo di barba rossiccio. Forse per questo lo chiamavano anche “al Rus”. Del resto io ricordo che anche zio Demetrio e zia Chiarina (fratelli di Paulin) erano castano-rossicci di capelli e con occhi chiari. Quanto ai capelli ondulati la mamma Enrica, figlia ultimogenita, ricorda con tenerezza che da bambina amava fare al suo babbo "la banana". Dopo di che gli calzava il cappello e pretendeva che lui andasse all'osteria a giocare a scopa così acconciato.
Nonno Paolo nasce nel 1879. Fa le prime tre classi elementari (forse a S.Albino). Per una settimana frequenta anche la 4^ elementare, a Monza, dietro il Tribunale. Ci va a piedi, probabilmente con gli zoccoli (portati sulle spalle, per non consumarli). Su istigazione del fratello più grande Guido, lascia la scuola e va con lui a fare il muratore. Di nascosto dai genitori si presenta al cantiere di Via Zanzi armato di sidelin (piccolo secchio) e bariet (piccolo badile). Probabilmente erano attrezzi richiesti in cantiere come testimonianza del consenso dei genitori. In realtà Paulin aveva “preso a prestito” il “barièt” di casa, una piccola paletta col manico che serviva a togliere la cenere dalla stufa. A fine settimana Paulin consegna la paghetta in casa. Nonno Davide non è contento che abbia lasciato la scuola ma la nonna Marièt, sempre pragmatica, incassa e da la sua benedizione ("Brau nan!"). Ma Paulin è ancora molto piccolo e un giorno al lavoro è così sfinito che si addormenta per terra. Nel racconto di Guido, il padrone, il capomastro Galbiati, chiede al fratello maggiore quanti anni abbia il piccolo e alla fine, anziché sgridarlo gli carezza il capo dicendo:“Povero figlio".
Come già raccontato nonno Paolo non viaggiò quanto Guido. Ma fece due anni filati di militare in Sicilia, a Bagheria, attorno al 1900. E alla faccia di tutti i leghismi odierni, amò profondamente quel paese e la sua gente. Imparò a mangiare varie specialità sicule e soprattutto le olive che nessuno da noi conosceva. Mia madre Enrica ricorda distintamente che spesso il nonno Paulìn si faceva comperare le olive a Monza. Grazie a ciò lei stessa una volta fece una bellissima figura a scuola. Una maestra originaria del sud aveva mostrato agli alunni ignari questo frutto strano e lei, unica in tutta la classe, lo aveva saputo riconoscere e nominare.
Del resto il nonno anche in seguito mostrò delle inclinazioni "filosudiste". Nel corso della prima guerra mondiale, essendo già piuttosto anziano venne mandato a fare il secondino al carcere militare di Gaeta. Lì venivano per lo più incarcerati i disertori. Erano storie dolorose e crudeli, di povera gente rientrata magari in ritardo dal funerale di un figlio. Erano maltrattati e spesso il destino finale era la fucilazione. Nonno Paolo resistette una settimana e poi chiese il trasferimento al fronte, in prima linea. E lì conobbe un sacco di commilitoni napoletani che adorò, tanto da imparare a memoria un sacco di canzoni partenopee.
Assieme a questo ricordo mia madre cita spesso un altro commovente sentimento di Paulin legato alla guerra. Spesso le parlava dei muli, animali intelligenti e generosi. Del loro terrore mentre salivano i sentieri di montagna ad occhi sgranati e a pelo irto fra i colpi nemici, offrendo riparo ai soldati. E del disprezzo che provava per chi li maltrattava o si faceva trascinare in salita aggrappandosi alla coda.
Brutta cosa la guerra! Ma anche prima le cose non erano gli erano andate tanto bene. Paulin a 30 anni circa aveva già perso la giovane moglie Antonia (Togna) e due bimbe. Si era risposato spinto anche dai familiari. Gli avevano suggerito di trovare una donna "buna da pèna", cioè capace di leggere, scrivere e far di conto perché ormai avevano un negozio da "mercante" da portare avanti. Così Paulin con un altro pretendente, grazie agli uffici di un "cinq e mès" (sensale di matrimoni) si era presentato a Busto Arsizio a casa di quella che sarebbe divenuta mia nonna Virginia (Bertani). Anche qui il regiù, mio bisnonno Gerolamo Bertani era un bel tipaccio. E aveva più di una figlia da maritare. Squadrò i due pretendenti e concluse con aria sprezzante che per l'altro non c'era nulla da fare. Per mio nonno Paolo, forse, se ne sarebbe potuto parlare. Il nonno Paulin ebbe diritto ad una passeggiata con la nonna sotto rigida osservanza della zia Cecilia (che era una maestra orditrice e una “beatoeura”, quelle che da noi si chiamavano “Angeline”, delle suore laiche). Al rientro, a buon conto, Gerolamo comunque trovò il modo di sgridare platealmente la figlia per un presunto ritardo.
Mia nonna Virginia, oltre ad aver notato che Paulìn non aveva delle mani rozze, fu favorevolmente colpita anche dalla sua sensibilità perché la sera si era fermato a Busto a dormire e l'indomani l'aveva attesa all'uscita del lavoro (in filanda) per sincerarsi del fatto che il padre non l'avesse maltrattata per colpa sua. Di tanto dovette accontentarsi la nonna per dare il suo assenso alle nozze! Del resto mi hanno raccontato che nel caso di un altro matrimonio combinato di qualche nostro conoscente, per tutto il tempo del corteggiamento la futura sposa dovette incontrare assieme due fratelli e solo all’altare scoprì che il prescelto era quello dei due che le piaceva meno!
Alla fine Paolo e Virginia si sposarono e nel 1910 nacque Davide Riva (il bisnonno omonimo era già morto da tempo). Davidino era un bel bambino, biondo, coi boccoli; di straordinaria vivacità e intelligenza. Era anche un bel monello. Ad esempio istigava i bambini più piccoli a fare la pipì sulle piantine dell'orto. Un giorno per voglia di sperimentare tirò il collo ad un pulcino, ma venne scoperto dalla nonna Marièt che, pur adorandolo, lo mise in punizione ("Stavolta ta perduni propi no!"). Un'altra volta, infastidito da un bimbo che se ne stava sempre a bocca aperta con la lingua penzoloni decise di correggere questa cattiva abitudine infilandogli un bel chiodo. Poi si spaventò della malefatta e si nascose sotto il bancone del negozio dove lo trovarono molto tempo dopo, ormai addormentato. Davidino era dunque l’amatissimo primogenito. Mio nonno, come già ricordato, aveva già perso la prima moglie e due figle. Possiamo immaginare cosa significasse per lui questo bimbo tanto bello ed intelligente. Ma mentre lui era in guerra, a 5 anni Davidino si ammalò di meningite. Mentre era al fronte un giorno Paulin vide casualmente una missiva a suo nome e a rischio della vita la aprì. Lo avvertivano che Davidino stava morendo. Accordò la precedenza ad un altro commilitone napoletano cui stava morendo una figlia grande e gli raccomandò di tornare appena possibile. Al rientro del compagno partì subito ma sul cavalcavia della stazione di Monza incontrò un compaesano e gli chiese del bambino. Costui gli disse che purtroppo era già morto. Il nonno ebbe l’impulso di tornarsene in guerra senza neppure passare a casa.
Un altro aneddoto familiare dice che mentre Davidino lottava per la vita la zia Chiarina, sorella del nonno Paolo, era corsa da Don Luigi Telamoni, oggi beato, che godeva fama di taumaturgo. Aveva con sé una veste del piccolo da far benedire. Il sacerdote però appena ebbe visto la veste disse:”A ghi gemò un angiarìn in ciel” (“Avete già un angioletto in cielo”). E proprio a quell’ora, pare, il piccolo era spirato.
Spesso mia madre mi ha ricordato un altro aneddoto penoso legato alla morte di Davide. Una vicina di casa, infatti, aveva commentato così questa tragedia occorsa in casa dei Riva ormai relativamente benestanti :"I sciuri in sempar furtunà; in gemò sciuri e ga moeur anca i bagài (“i ricchi sono sempre fortunati; sono già ricchi e gli muoiono anche i figli"). La nonna Virginia ricordava questa frase con dolore ma senza risentimento. La gente era tanto disperata, oberata da figli e miseria, da considerare quasi con sollievo la morte di un bambino. La mortalità infantile era talmente alta che spesso i bambini non venivano battezzati e nominati finché non erano abbastanza cresciuti . D'inverno morivano di bronchite e d'estate di gastroenterite. Ogni famiglia aveva un gran numero di morticini.
E anche per Paolo e Virginia Davidino non fu l’unico piccolo morto prematuramente. Ci fu anche la piccola Antonietta.
Lasciando questo triste capitolo e tornando alla vita professionale occorre ricordare che nonno Paolo dopo aver fatto il muratore al seguito del fratello Guido divenne un cappellaio. Lui in particolare era un formatore. Ovvero sagomava su delle forme il feltro bollente per farne un cappello. Tanti anni di quel lavoro avevano reso le sue mani dure e callose tanto che quando qualche tizzone schizzava dalla stufa lui lo raccoglieva a mani nude, lo ributtava nel fuoco e semplicemente si batteva le mani tra loro per ripulirle dalla fuliggine.
I cappellai, a quel tempo (primi del '900) a Monza rappresentavano l'élite della classe operaia. Avevano salari molto più alti della media tanto che, secondo la gente, "tran via la pèl dal pulastar" (buttano la pelle del pollo). Probabilmente proprio in cappellificio Paolo si avvicinò sempre più alle idee socialiste e ebbe un ruolo nei primi scioperi a Monza, ad inizi novecento. Tanto che, probabilmente licenziato per questo, dovette poi mettersi in proprio, costruendo nel cortile della nuova casa dei Riva, all’angolo fra Via Marco D’Agrate e Via Fieramosca, un forno dove cuoceva il feltro e poi lo sagomava a mani nude.
Come militante socialista fu anche un collaboratore del famoso Avvocato Reina. Edoardo Fossati è convinto che sono opera sua anche alcuni articoli non firmati pubblicati su "La Brianza" che era appunto un giornale di ispirazione socialista. In questi articoli il nonno polemizza animatamente anche con alcune prediche dei preti santalbinesi.
In effetti comunque questi Riva non erano stupidi. Pur non avendo studiato tutti amavano leggere regolarmente il giornale da capo a fondo. E’ probabile che nella formazione politica di Paolo possa aver giocato un ruolo il fratello Guido che come detto altrove era ancor più impegnato in politica e su posizioni più radicali. Guido era un massimalista, mentre Paolo fu sempre più moderato. Era un turatiano e fu ostile al Fronte Popolare cui aveva aderito Nenni. Paolo considerò l’alleanza coi comunisti un grave errore. Egli era sostanzialmente un socialdemocratico e giudicava Nenni “un ambizioso". L'ambizione era un vizio che nei politici considerava nefasto e foriero di disgrazie. Molto "ambizioso" gli era apparso anche Mussolini che aveva sentito in comizio a Monza quando era ancora un compagno socialista, direttore dell'Avanti.
In quanto socialista Paulìn per quarant'anni non frequentò la chiesa, nonostante fosse credente. Riprese ad andare in chiesa dopo la scomparsa della mamma Marièt che in punto di morte aveva chiesto a lui e a Guido questo regalo. Paulìn ottemperò subito alla richiesta della mamma. La mia nonna Virginia fu il tramite per questo riavvicinamento. Disse al figlio Emilio di accompagnare il papà a confessarsi alle Grazie Vecchie ma di dire prima al frate di aiutarlo perché il papà non si confessava da quarant'anni. Guido invece si riavvicinò alla chiesa solo alla fine, grazie ai buoni uffici di Don Arturo Salvioni, prete particolare ma di povertà evangelica, che un giorno, andatolo a trovare già malato gli chiese:"Sciur Guido, devum pruà a cunfesass?" (“Signor Guido, dobbiamo provare a confessarci?”) E lui accettò.
Nonostante fosse socialista e quindi istituzionalmente "nemico" della chiesa anche il nonno Paolo aveva comunque rapporti di stima (ricambiata) con Don Arturo.
1915 - l' asilo "socialista" fondato da Paolo Riva - la terza bimba da sinistra è Amelia Riva, il bimbo sopra la carriola è Emilio Riva e seduto vicino a lui Marco Riva. La bidella a destra secondo Edoardo Fossati è Riva Ida, figlia Angelo, cugina del nonno Paolo Riva.
Un episodio “storico” aveva messo a dura prova la relazione di Paulin col clero santalbinese (e monzese in generale). Nel 1915 mio nonno Paolo, che fu anche Vicepresidente del Circolo De Amicis, aveva infatti organizzato il primo asilo laico a S. Albino. Da noi, prima di allora, nessun servizio, neppure cattolico, si era mai occupato dei bambini. L’asilo venne frequentato da una decina di piccoli tra cui mia zia Amelia e mio zio Emilio, fratelli di mia madre. Questa iniziativa fu però vissuta come una provocazione ideologicamente inaccettabile e alla fine scatenò fiere proteste negli ambienti cattolici monzesi. L’Arciprete di Monza organizzò perfino una processione di protesta/espiazione trascinando per le ve della Cascina migliaia di persone armate di mestoli e coperchi da percuotere (un “cacerolazo” ante litteram).
Circolò perfino la voce che nel covo socialista ai bimbi venisse insegnato, tra l’altro, a “segnass cunt i pè” (cioè a fare il segno della croce coi piedi, in segno di spregio verso la religione). Miracolosamente, in pochi giorni, la Chiesa organizzò la nascita a S.Albino di un proprio asilo cattolico.
Una ventina di anni fa, predicando a S. Albino, Don Giana, già parroco nel 1915, ricordò l'apertura dell'asilo avvenuta tanti anni prima "per cause di forza maggiore". All'uscita mia madre gli si presentò:"Sun la tusa della causa di forza maggiore...". "Ta sè la tusa dal Paulìn di Riva?!" rispose sorpreso ma affettuoso Don Giana. (“sono la figlia della causa di forza maggiore…Sei la figlia del Paulin dei Riva!?”).
Fiscamente Paulìn assomigliava, come complessione, allo zio Emilio, fratello maggiore di mia mamma Enrica. Molto magro, amava stare seduto a tavola in posizione un pò acrobatica, con il tallone appoggiato al fondo della sedia e col ginocchio ripiegato contro il petto.
Era un uomo parco, morigerato. I suoi motti ricorrenti erano :"Cane vecchio non vuol commedie" (quando mia mamma, nata da due genitori ormai anziani si faceva un po' troppo esuberante); "la minestra l'è la biada da l'om" (la minestra è la biada dell’uomo); ma soprattutto "Un taulin, una bela minestra e un lecin quant ta se stracc. S'al ga da vuré pusé un om!?" (un tavolino, una minestra e un lettino quando sei stanco…cosa può desiderare di più un uomo!?).
La sua morigeratezza non era avarizia. Anche il benessere raggiunto non lo aveva modificato in alcun modo. Quando la mia mamma, sempre inappetente da piccola, rifiutava di mangiare la carne, lui semplicemente la invitava a pensare alla sue compagne che la carne la vedevano forse una volta al mese. Come già detto odiava l’ambizione e le persone che definiva come “meravigliose” (cioè le persone pettegole e poco rispettose degli altri, che a suo dire appunto “si facevano meraviglia” dei comportamenti o delle disgrazie altrui). Nei confronti di una vicina che a volte veniva picchiata dal figlio diceva:”per forsa (sottinteso: lui è maleducato e irrispettoso), la mam l’è una dona meravigliusa”.
Anche in casa Paulìn era piuttosto accomodante. Per esempio lasciava volentieri che i figli, quando liberi da scuola, potessero poltrire un pò a letto la mattina.
In ogni caso in famiglia era autorevole e rispettato. Lo zio Guido era il fratello maggiore ma era stato via a lungo e poi era un tipo un pò più...pazzerello. Per cui Paulìn era il pater familias riconosciuto. Anche lo zio Demetrio, sempre alla ricerca di nuovi acquisti ed affari comunque sottoponeva ogni decisione al vaglio del fratello. Una volta fu proprio Paulin a stoppare un affare abbastanza incredibile che Demetrio stava trattando: l'acquisto dell'Hotel Park Restaurant di S. Pellegrino, l'hotel delle Terme e della Belle Epoque! Paulìn disse: "Ma ta ga né mai asè!" (non ne hai mi abbastanza?) e Demetrio rinunciò all’affare. Anche in seguito tutti gli affari economici della famiglia vennero sempre risolti da fratelli e cugini in modo armonico e condiviso.
Quanto al rispetto generale nei confronti di Paulin mia madre ricorda però un aneddoto divertente e in controtendenza. Una notte un vicino ubriaco faceva rumore. La moglie cercò di contenerlo dicendo: “Vusa no ca ta sent al Paulin!” (“non gridare che ti sente il Paulin!”). L'effetto fu che l’uomo passò tutta la notte a cantilenare ininterrottamente: “Ma che Paulin, da Paulin, da Paulot! Che Paulin, da Paulin, da Paulot ecc. ecc.”.
Al tempo del fascio ovviamente nessuno dei Riva ebbe mai la tessera. Anche lo zio Emilio si rifiutò di averla. Per fortuna però a S. Albino non ci furono mai fascisti sfegatati e i Riva poterono comunque lavorare in pace. Ad un certo punto ci furono delle elezioni farsa. C'erano due schede diverse e ben identificabili a priori, in modo da scoraggiare chi non volesse votare per i candidati fascisti di cartello. Nonostante questo mio nonno Paulin votò la scheda "sbagliata" e qualcuno poi lo minacciò. In un’altra occasione mentre mangiava all'osteria un fascista si avvicinò e gli sputò nel piatto. Paulìn fece finta di nulla.
Di certo non fu mai un amante della guerra. Ne aveva visti di orrori. Tuttavia quando già anziano sentì parlare di un possibile ritorno di Trieste alla ex Yugoslavia disse: "Emm lasà là tanti mort. Da fa la guera sun bun pu ma da fac la minestra ai suldà sun bun ammo!". (“Abbiamo lasciato lì tanti morti! Di combattere non son più capace ma di far da mangiare ai soldati sono ancora in grado!)
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