La bisnonna Maria Besana è una figura di rilievo nella “mitologia” dei Riva. Era soprannominata "Nona Marièt" e veniva da Bernareggio.
Mia
 madre ricorda che il vecchio Rolla, detto “al Pota” (di origine 
bergamasca?), un uomo alto che le incuteva un po’ di paura  e che era 
bisnonno del mio quasi coetaneo Mario Pulici, quando la incontrava da 
piccolina si divertiva un mondo ad apostrofarla con voce cavernosa e un 
po’ tremula: ”Bernarégia  végia végia” (alludendo alle origini della sua
 nonna Marièt). O, in alternativa ma con la stessa voce, la chiamava 
anche  “Paciarisotu" (alludendo ironicamente al singolare dialetto 
bustocco della mia nonna Virginia Bertani, sua madre). 
Maria
 Besana nacque nel 1852 (esattamente cento anni prima di me) e morì nel 
1934. Rimase orfana molto piccola, con due fratellini più piccoli 
ancora. I tre  vennero ospitati ed allevati da zii materni che di 
cognome facevano Vertemati. Probabilmente dunque la loro mamma era 
appunto una Vertemati ma non ne sappiamo il nome proprio. I Vertemati 
abitavano in una corte vicino alla vecchia scuola elementare o alla 
chiesa di Bernareggio. 
La
 bisnonna Marièt era analfabeta. Non era mai andata a scuola. Accudiva i
 fratellini e a dieci anni andava  già  a lavorare in filanda a 
Germanedo (Lecco). Viaggiava su un carretto trainato da un cavallo. 
Partiva alle 4 di mattina del lunedì con le donne e altre bambine. 
Portava un fagotto contenente  pan giallo, qualche fetta di pancetta e 
probabilmente qualche paio di calze. Non le mutande che a quel tempo, 
secondo mia madre Enrica, non venivano usate, men che meno dai bambini. 
Dopo una settimana di lavoro la piccola Marièt tornava a casa il sabato 
sera. 
Le
 bambine, in virtù delle loro piccole dita, in filanda erano addette 
alla ricerca del capo del filo che costituiva il bozzolo. I bozzoli 
venivano immersi in vasche d’acqua bollente. Occorreva infatti far 
morire il bruco per evitare che divenisse farfalla e bucasse il bozzolo 
rovinando così il filo di seta. Così queste bimbe lavoravano tutto il 
giorno con le mani nell'acqua bollente.
Mia
 madre ricorda che a S. Albino stava anche una certa "Angiulana" che era
 originaria di Bernareggio e parente della nonna Marièt. Secondo la 
nostra vicina Carmela Ratti in Rossi questa donna era la sua nonna 
"Angiòla" (accento sulla o chiusa). Forse fu proprio questa Angiulana a 
favorire l'incontro fra Marièt e il bisnonno Davide.
Marièt
 arrivò al matrimonio poverissima. Non ebbe neppure i soldi per portare 
in dote, come usava tradizionalmente, "al stè" o "baslèta", cioè lo 
staio di rame che veniva usato per mondare il riso.
La
 nonna Mariet anche se analfabeta era però molto sveglia e brava nei 
conti (dote assai apprezzata in negozio). Aveva anche buona memoria. 
Ricordava le date di nascita e di morte di tutti. Quando i figli fecero 
abbastanza fortuna e dovettero assolvere a vari impegni ed appuntamenti 
per via del negozio “da mercanti” e per vari affari immobiliari 
intrapresi, la nonna Marièt funzionò da agenda: " Mama regurdivas che 'l
 di tal devum andà in dal nudar...". (Mamma ricordateVi che il tal 
giorno dobbiamo andare dal notaio”). Ormai anziana e coi nipoti 
impegnati alle scuole superiori imparò a leggere le sillabe ma mai ad 
assemblarle in una parola compiuta. Così nonostante le sollecitazioni 
dei nipoti "ci...me...na"  non divenne mai "cinema". 
La
 bisnonna in compenso era venerata dai figli. In particolare dal mio 
nonno Paulìn che peraltro lei considerava il vero capo famiglia. Anche 
perché il marito Davide era morto presto e il figlio maggiore Guido dai 
dieci/dodici anni in poi visse a Parigi prima e a Zurigo poi, rientrando
 in Italia solo per combattere per il suo paese nella prima guerra 
mondiale.
A
 testimonianza del forte legame tra lei  e il figlio mia madre ricorda 
che alle volte, al rientro di Paulìn dal lavoro, poteva accadere che la 
bisnonna battesse ritmicamente per terra  la punta della ciabatta o 
dello zoccolo. Era un segno inequivocabile di nervosismo. Allora il 
nonno le chiedeva cosa ci fosse e la bisnonna diceva: "La tal (nuora) la
 mà mancà da rispèt". Paulin allora convocava le nuore o gli altri 
incriminati in seduta plenaria ed annunciava platealmente: "Sia chiaro: 
la padruna da ca la cà chi l'è cala dona chi!" (“la padrona di questa 
casa è questa donna!”). La questione era chiusa all’istante senza alcun 
ulteriore contenzioso.
Altro
 analogo rito ricorrente veniva officiato allo spuntare di ogni primizia
 dell'orto o del frutteto. Paulin convocava i bambini e in modo chiaro e
 didascalico diceva: "Cala magiustra chi (questa fragola, la prima) l'è 
da la nona. Guai a chi la tuca!".
Un
 rapporto più singolare, come spiegherò dopo, legava la bisnonna al 
figlio Demetrio. Demetrio veniva chiamato dai nipoti Ziu Mètar. Credo ci
 fosse dell' ironico compiacimento nel gioco di parole, dato che il 
metro, inteso come robusta barra di legno di sezione rettangolare nella 
casa dei "mercanti" troneggiava immancabilmente sul bancone del negozio 
ed era lo strumento di lavoro indispensabile per misurare rapidamente 
gli scampoli. A volte serviva perfino per minacciare la paga ai bambini 
disobbedienti. Ziu Metar era stato un pò l'artefice dell'impresa 
commerciale dei Riva. Il primogenito Guido infatti fin da piccolissimo 
faceva il muratore (e solo poi divenne ristoratore e cuoco). Paulìn ne 
aveva seguito le orme fin dalla quarta elementare ma poi era diventato 
operaio capelé, di cappellificio. Demetrio, forse per conformazione 
fisica, forse per vocazione, aveva scelto altre vie professionali. Aveva
 iniziato giovanissimo ad organizzare piccole lotterie a premi nelle 
osterie. Poi aveva iniziato a vendere "strinc e bindèi" (stringhe 
efettucce), girando da ambulante con un cesto di vimini. Inutile dire 
che era un oculato risparmiatore ed investitore ed incarnava con la 
sorella Chiarina l'anima più “mercantile” dei Riva, mentre Guido e Paolo
 erano più idealisti. 
- foto di Riva Giuseppe con la moglie Carsani Maria
Giuseppe
 invece, che era più giovane, era sensibile, diremmo oggi, alle nuove 
tecnologie. Era un bell’uomo, sanguigno e a volte impulsivo. Per inciso 
fin da piccolino fu molto irrequieto tanto che una volta, pur essendo 
tutto fasciato a mò di mummia nel “bigulòt”, come si usava allora, 
riuscì a scendere dalla camera del primo piano lungo la ripida scala a 
pioli. Da grande amava molto fare scherzi ai bambini. Una volta, per 
esempio, appese all'attaccapanni lo zio Emilio, anche lui fasciato come 
usava ai tempi, e lo lasciò li terrorizzato per un bel pò. Esempio ben 
seguito da mia madre che amava lasciare il cuginetto Carluccio Guidali, 
di tre o quattro anni, appollaiato sulla forcella di un albero 
dicendogli: “Finché non smetti di piangere non ti tiro giù!”.  Lo Zio 
Giuseppe era appassionato soprattutto di meccanica. Aveva la moto e si 
occupava della manutenzione dei carri e dei calessi e in seguito delle 
auto e dei camion della famiglia. Per un destino beffardo morì ancora 
piuttosto giovane cadendo proprio nella buca del suo meccanico di 
fiducia a Concorezzo, mentre rimirava il motore del suo camion in 
riparazione. Un evento drammatico cui purtroppo dovette assistere il 
figlio Mario. I soccorsi furono immediati ma vani. 
Tornando
 a Demetrio, lo “Zio Metar”  aveva sicuramente un certo genio 
imprenditoriale ma anche una propensione perfino eccessiva alla 
parsimonia. Così controllava puntualmente ogni entrata ed uscita della 
famiglia. Le giovani Riva che ormai andavano alle magistrali dalle 
Canossiane, "in centro", con la crème della borghesia monzese, erano 
costrette a lavare ripetutamente le calze di seta prima di metterle onde
 evitare che lo zio si accorgesse che erano nuove. Altrimenti sarebbero 
state dure reprimende per l'irresponsabile prodigalità dei parenti. 
Proprio
 per questa sua inclinazione al controllo (spending rewew, diremmo oggi)
 Mètar si era conquistato in famiglia un altro soprannome meno 
innocente. E l’artefice del graffiante nomignolo era stato il più 
insospettabile dei familiari. Proprio la sua mamma, bisnonna Marièt, lo 
chiamava, in sua assenza, il "pètabal" (che potremmo tradurre 
pudicamente come "il rompiscatole"). A volte, rivolgendosi alle nuore la
 bisnonna diceva: "Adess che gh'è no 'l pètabal  fèmm un bel cafè!". 
Va
 detto a margine che Marièt aveva comunque una certa propensione 
all'aforisma icastico, fantasioso ma a volte un po' greve. Un suo 
proverbiale motto rivolto ai nipoti era: ”Mangia l'uga (dieresi) ca ta 
schigasciat!”. Lasciamo la traduzione all'iniziativa del lettore.  
I
 figli di Davide e Marièt nacquero quasi tutti in Curt di Fopa. Solo lo 
zio Giuseppe nacque nello stanzone sopra il negozio nuovo dei Riva.  
Oltre ai quattro maschi (nell'ordine: Guido, Paolo, Demetrio e Giuseppe)
 i bisnonni ebbero anche due figlie, Chiara ed Irene. Irene a soli 20 
anni morì di tisi. Secondo il nonno Paolo era molto bella e dolce. 
Assomigliava a zia Chiarina e a questo punto direi che assomigliava 
anche alla sua mamma perché quando ho visto la foto della bisnonna 
Marièt giovane mi è parsa identica a Zia Chiarina che ho conosciuto bene
 da ragazzino. Irene era molto pia tanto che sembrava dovesse diventare 
una suora. Quando i fratelli le rivolgevano parola in modo meno che 
cauto lei diventava tutta rossa. Probabilmente era la penultima dei 
figli. Il bello è che ho (ri)scoperto la sua esistenza solo di recente 
(nell'ottobre 2012) grazie all'albero genelogico stilato da Simone Riva,
 figlio di mio cugino Giorgio. Può darsi che me ne fossi dimenticato. A 
mia madre Enrica è sembrato strano di non avermene mai parlato anche se 
probabilmente una morte così prematura è evento che tutti in qualche 
modo cercano di rimuovere. Allora ho chiesto se nonno Paulin avesse 
avuto altri fratelli. Enrica mi ha risposto che nonno diceva di non 
ricordare ma che probabilmente erano morti due o tre fratellini, “ma 
molto piccoli”.
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| VERTEMATI MAURO ERA UN CUGINO DELLA NONNA MARIET | 
![]()  | 
| Francesco Besana, cugino della nonna Marièt | 








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